Biblioteca Labronica. Centro di documentazione e ricerca visiva. Fotografia dell'800 a Livorno

Le origini e gli sviluppi della fotografia in Italia

Dalla data del primo esperimento e dalle notizie tecniche diffuse nell’agosto del 1839 dallo stesso Daguerre, le comunità scientifiche internazionali cercano di emulare i risultati ottenuti a Parigi. La notizia della scoperta si espande a macchia d’olio e in Italia segue progressivamente la direzione Nord-Sud; Torino, Milano, Genova, Bologna e di seguito altre città pubblicano nei giornali locali l’importante notizia parigina. Nella penisola il primo esperimento ufficiale sul dagherrotipo è del 2 settembre 1839 eseguito a Firenze presso il Museo di Fisica e Storia Naturale con strumenti fatti arrivare da Parigi; il 6 ottobre in occasione del convegno dei Dotti a Pisa l’esperimento viene positivamente ripetuto. L’ottico torinese Jest riesce ad ottenere risultati apprezzabili ricostruendo l’attrezzatura necessaria l’8 ottobre 1839. Dopo un periodo di sperimentazioni e conferme la fotografia esce dai confini accademici per entrare nella società e nel costume. Il fotografo degli inizi è anzitutto un sofisticato artigiano, che attraverso le proprie conoscenze applica le teorie pubblicamente divulgate e ne sperimenta di nuove , sempre teso al miglioramento del risultato finale. I primi fotografi sono itineranti: in Europa dalla Francia portano la nuova invenzione presso città dove possono stupire il pubblico con la dagherrotipia conosciuta finora solo tramite le corrispondenze dei giornali. I fotografi delle origini seguono opportunamente anche i flussi turistici e in questo aspetto, l’Italia è meta privilegiata a ridosso delle frotte di turisti stranieri che visitano le città d’arte secondo i percorsi del voyage pittoresque ottocentesco. La realizzazione di un’immagine dagherrotipica ha necessità di tempi d’esposizione molto lunghi, se paragonati a quelli della fotografia odierna; l’attrezzatura necessaria è ingombrante e delicata e i luoghi delle riprese devono essere ben illuminati. Come soggetti vengono privilegiati i paesaggi, le opere scultoree e architettoniche e tutto ciò che è statico mentre la ritrattistica pone notevoli difficoltà e richiede l’utilizzo di sostegni e appoggi al soggetto per far sì che questo si muova il meno possibile. E’ però proprio il ritratto l’intervento che viene massicciamente richiesto dal pubblico. Sovente i risultati dagherrotipici vengono ritoccati, con la pretesa di abbellire l’oggetto, ma in realtà anche per correggerne i difetti derivanti dall’ inevitabile movimento dell’individuo ritratto nei lunghi tempi d’esposizione. Il dagherrotipo non rappresenta la fotografia così come la conosciamo oggi in quanto non è duplicabile: è quindi un oggetto singolo e unico. Spesso il suo confezionamento è eseguito in curati astucci in pelle dagli interni vellutati, emulazione della miniatura allora in voga nella ritrattistica, con una lastra in vetro a protezione della delicata immagine argentica per preservarla da graffi e impronte deleterie. Le paure e i dubbi di intere schiere di artisti su questa forma concorrenziale di produzione di immagini è forte: "Da oggi la pittura è morta!" dichiara l’artista Paul Delaroche in una delle prime apparizioni pubbliche della fotografia dagherrotipica. Anni più tardi l’assimilazione della tecnica fotografica da parte di molti artisti produce nuovi talenti: in ambito italiano l’abruzzese Francesco Paolo Michetti ferma le scene di costume e tradizione con la fotocamera per poi approfondirne l’esecuzione sui suoi dipinti, in Toscana il macchiaiolo Telemaco Signorini si fa aiutare da un amico fotografo per la realizzazione di alcuni suoi quadri; Marius Pictor (pseudonimo del pittore Mario De Maria) fa largo uso della macchina fotografica, mentre a Roma Federico Faruffini abbandona il cavalletto per realizzare ritratti fotografici di modelli da proporrre ai colleghi pittori. Nel 1841 l’inglese William Henry Fox Talbot brevetta i "disegni fotogenici" attraverso la realizzazione di un negativo ottenuto da carta opportunamente sensibilizzata alla luce, dalla quale è finalmente possibile ricavare un numero ipoteticamente illimitato di copie. Nasce quindi la fotografia così come la si intende oggi: realizzazione di un negativo da cui è possibile tirare svariate copie positive. Ancora vi sono dei marcati limiti in questa tecnica: la possibilità di riportare i più fini dettagli di una ripresa così come visibili nel dagherrotipo è lontana perchè le fibre della carta confondono l’immagine; successivi miglioramenti attraverso la ceratura della carta per renderla traslucida abbassano i tempi di ripresa. Dagherrotipo e calotipo rimangono in auge per un decennio e sono le tecniche dei fotografi delle origini. Il dagherrotipo, che rappresenta un fenomenale ibrido anche durante la sua osservazione, capace di mostrarsi positivo o negativo a seconda dell’angolo della visuale, ha nella storia della fotografia un posto privilegiato dalla sua stessa nascita fino agli inzi degli anni ‘60 quando ad esso e al negativo su carta, fu definitivamente preferito il negativo su vetro al collodio, capace di maggiore nitidezza. Con la descrizione del processo al collodio del 1851 da parte di F.Scott Archer, attraverso l’utilizzo di questa sostanza derivante dal fulmicotone, si utilizza un collante per i sali sensibili alla luce che vengono applicati nelle lastre in vetro. Si abbassano così i tempi di esposizione e di stampa migliorando la qualità delle immagini, che risultano essere anche più economiche del dagherrotipo. Il collodio soppianta la breve vita dei negativi di vetro all’albumina, brevettati nel 1847 da A. Niepce de Saint-Victor che per primo usa il vetro come supporto del negativo, processo caratterizzato da buona nitidezza ma da una inferiore sensibilità alla luce. Si delinea così quella che nella storia odierna della fotografia viene chiamata "Età del collodio": per circa un trentennio il collodio (prima umido poi secco) è la tecnica più usata per ottenere negativi fotografici, soppiantata nel 1880 ca. dalla tecnica alla gelatina. La stampa dei positivi avviene quasi completamente utilizzando la tecnica dell’albumina. Questa sostanza, derivante dall’albume dell’uovo di gallina, risulta essere il più pratico ed economico sistema per la sensibilizzazione delle carte positive. L’utilizzo dell’albume nelle stampe dei positivi ha un successo enorme, moltiplica la produzione fotografica e pone le basi per la produzione industriale. Nascono fabbriche che vendono carta già preparata e gli allevatori di pollame in batteria incrementano i loro affari!. La storia della fotografia è dunque storia dell’evoluzione tecnica di questa applicazione, scandita dai progressi e dai nuovi materiali utilizzati che ne facilitano l’impiego e ne moltiplicano gli utilizzi. Molti fotografi inventano soluzioni per personalizzare la propria produzione attraverso sperimentazioni quasi alchemiche: i collanti dei sali fotosensibili (le "pappe fotografiche") sono svariatissimi: oltre all’albume dell’uovo si utilizza il miele, la gommalacca, il lichene d’Irlanda, lo zucchero, la gomma arabica e altro. Dalla prima camera di Daguerre commercializzata dal francese Giroux, si passa a modelli sempre più perfezionati), nascono gli obiettivi per i vari tipi di ripresa, si realizzano otturatori sempre più precisi. Grazie alle osservazioni di Wheatstone, nel 1853 l’immagine fotografica viene utilizzata per la visione stereoscopica. Nei decenni seguenti attraverso le stereoscopie su supporto cartaceo, il mondo occidentale viaggia con l’illusione della tridimensionalità, attraverso l’osservazione di milioni di fotografie stereoscopiche, riproducenti paesaggi esotici, città d’arte e bellezze naturali in luoghi dove schiere di fotografi si sono avventurati per conto proprio o per quello degli editori che li finanziano. Nel 1871 Maddox realizza lastre per negativi alla gelatina bromuro d’argento che andranno progressivamente a sostituire le lastre al collodio. Dagli anni ‘80 dell’ottocento possiamo distinguere la terza fase nella storia della fotografia riconoscibile come "età della gelatina bromuro-d’argento". Grazie al nuovo procedimento, le lastre per i negativi vengono subito realizzate in fabbrica, esonerando l’operatore dalla loro preparazione. Dal 1886 viene utilizzata la celluloide al posto del vetro quale supporto alle immagini negative, e una delle più grosse ditte del settore, la Kodak, utilizza il nuovo materiale per i caricatori in rullo. Gli apparecchi fotografici diventano sempre più piccoli, facili da trasportare e da usare; in pochi anni, ciò che era appannaggio esclusivo di abili operatori delle immagini, viene messo a disposizione di tutti, grazie alle nuove scoperte e alla grande industria che monopolizza il mercato. La ripresa fotografica diviene fenomeno di massa, e chi ha le possibilità economiche, può eseguire fotografie non più vincolato da limiti tecnici. Si tratta comunque di individui facenti parte di classi benestanti, con possibilità di acquistare i materiali necessari. La macchina fotografica diventa fedele compagna dello scorrere dell’esistenza degli individui: testimonia i momenti importanti della vita privata familiare: cerimonie, ricorrenze, viaggi. Verso la fine del secolo nascono in Italia, a Milano, Napoli e in diverse altre città i primi circoli fotografici, ai quali aderiscono non solo professionisti ma anche fotoamatori e dilettanti. Con la nascita della Società Fotografica italiana, costituita a Firenze nel 1889 i fotografi si uniscono, si tutelano legalmente, si emancipano. Nel 1899 anche a Livorno verà aperta una sezione di tale Società. Ormai la fotografia guarda al nuovo secolo: in molti fotografi, come già avvenuto più precocemente all’estero, nasce l’esigenza o l’ambizione di trasformare la fotografia, non più solo come mezzo di documentazione, ma anche come strumento di espressione artistica. Verso gli ultimi anni dell’ottocento si diffonde la fotografia pittorialista e vi è una maggiore attenzione ai processi di stampa non argentici, più facilmente manipolabili, per una elaborazione personalizzata. Nel frattempo i fratelli Lumière annunciano l’avvento del cinematografo e pochi anni dopo, gli stessi, mettono a punto la prima tecnica per realizzare fotografie a colori: le autocromie, che vengono eseguite utilizzando anche fecola di patate!


Pagina creata il 30-06-1999, ultimo aggiornamento 15-03-2000 (redazione).
URL: http://opacprov.comune.livorno.it/labron/vmaria/fotoli/origini2.htm

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